CAPITOLO V

CONCLUSIONE

Abbiamo già osservato la differenza che corre fra Marinetti e i futuristi tipo Govoni; ma il peggio avviene, per la compattezza del futurismo, con l’entrata dei toscani che si erano staccati dalla «Voce», desiderosi di una radicale avventura d’avanguardia. Nacque la «Lacerba», e Papini e Soffici si proclamarono futuristi. Dettero titoli futuristi alle loro opere – come Palazzeschi e Govoni – ma la loro sensibilità era troppo diversa perché il connubio con Marinetti potesse riuscire durevole e non si risolvesse invece con la fine del futurismo stesso.

Già con la nascita della «Voce» e con lo sviluppo degli scrittori radunati intorno ad essa si era venuta creando un’atmosfera nuova, in cui i futuristi sembrano rappresentare il massimo sforzo di rinnovamento, mentre in realtà significano l’ultimo tentativo del decadentismo italiano.

La «Voce» adempí a dei compiti eccezionali; ricercava una moralità concreta dopo gli atteggiamenti estetizzanti, e di fronte agli schiamazzi futuristi preparava una letteratura piú sobria e piú sofferta, di cui davano indizi i suoi migliori scrittori: Jahier, Boine, Slataper: i nordici, che portavano nella nostra letteratura un romanticismo di razza, un certo che di protestante e di estremista, tutto nuovo da noi e utile a stroncare per sempre l’abitudine retorica patriottarda, rimasta in D’Annunzio e nei suoi imitatori. Con la ricerca del concreto – che troppo spesso finiva in un tecnicismo inficiato da una buona dose di letteratura – la «Voce» sconvolgeva il solito tipo del letterato italiano e del decadente tour d’ivoire. Portava il senso che tutto era da fare di nuovo, senza strepitare contro la tradizione e senza bestemmiare i morti, e faceva sostanzialmente assai piú, per la formazione d’una letteratura nuova e moderna, che se avesse bandito programmi o svolto un’attività puramente artistica.

Tutti conoscono il rovescio della medaglia e i difetti vistosi della «Voce», ma nessuno può disconoscere il suo apporto anche in un puro campo artistico: contributo al disgusto dal poeta estetizzante, immensa importanza per la concreta conoscenza degli stranieri in Italia. Basti ricordare che i pittori impressionisti francesi, fondamentali per la nuova poesia, e poi Claudel, Péguy e i «Cahiers de la Quinzaine», Paul Fort, Wedekind e Przybyszewski furono fatti conoscere attraverso le colonne della «Voce». Rimbaud, di cui si era molto parlato a vuoto, fu introdotto davvero fra noi dal saggio di Soffici, e cosí per molti altri degli autori piú essenziali per la poesia moderna. Scorrere i cataloghi della libreria della «Voce» significa percepire il flusso della cultura francese ed europea in Italia.

E gli scrittori vociani non erano semplici presentatori, ma assimilavano per proprio conto quelle poetiche fin allora troppo orecchiate ed imitate esteriormente. Questo momento di assimilazione è essenziale: solo dopo si può avere da noi una poesia originalmente italiana ed europea insieme.

La seconda «Voce», quella letteraria di De Robertis, contiene già degli autori nuovi, dei poeti che hanno superato il dannunzianesimo e l’esperimento dei crepuscolari e dei futuristi: sono Onofri, il primo Ungaretti e i letterati nuovi: De Robertis, Serra. Di quest’ultimo usciva nel 1914 un libretto intitolato Le lettere, consuntivo dell’annata e del periodo letterario, in cui, malgrado lo scontento che il critico romagnolo derivava dal confronto con gli ultimi grandi e con la produzione francese, si osservavano, un po’ per ironia, un po’ sul serio, come novità della letteratura piú recente: «un lirismo nuovo», «una disposizione all’analisi e al ripiegamento, un abito di dubbio e di controllo interiore, che diventa inquietudine assidua della coscienza, e rende anche al lavoro dell’arte un non so che d’intenso e turbato e serio». Si notava l’impostazione della critica che «ha rinnovato in tutti non solo la conoscenza storica e teorica, ma anche il sentimento diretto dell’arte nella sua essenza e nei suoi problemi». E si rilevava un fatto importantissimo: la conquistata unità della lingua, non in senso astratto e naturalistico, ma come unità di coscienza e superamento delle barriere regionali. La nostra letteratura era stata regionale e prevalentemente centrale: ora l’europeizzamento coincide con l’unificazione piú sicura.

Naturalmente, se distinguiamo un primo da un secondo periodo moderno, i limiti cronologici sono incerti e relativi. Ma s’intende che l’approssimazione in questi casi è sufficiente. I legami fra i due periodi sono molteplici, vitali, ma insomma noi sentiamo nei nuovi una coscienza meno legata e meno gradassa, una comprensione piú intima della poesia, e l’utilizzazione in profondo delle grandi poetiche decadenti. La poesia nuova nasce in Italia, dopo lunghe incertezze provinciali (che possono anche aver dato la sicura poesia di Guido Gozzano), sopra un conquistato europeismo, per un bisogno di approfondimento umano, accentuato dall’esperienza non contingente della guerra.

Nasce in certo senso dall’assimilazione delle poetiche straniere: il che vuol dire però superamento personale, non imitazione. I procedimenti di cui usano i poeti nuovi non si possono infatti confondere con quelli tipicamente mallarmeani, valeriani, apollinairiani: il raccourci baudelairiano, l’analogia di Mallarmé, non han piú nulla a che fare con le scoperte personali di Ungaretti, rivelate soprattutto dal suo senso di canto. E in Montale l’allibimento di certi suoi pezzi (liberazione dal silenzio che soffoca la voce), che può far pensare ad una rarefazione di Poe, è approfondimento del suo paesaggio sofferto, autocritico.

Insomma i poeti nuovi (e si sa che accenniamo ai migliori, non alla turba) mentre rappresentano un atteggiamento coerente a tutto lo sviluppo della nuova poesia dopo il romanticismo, riaffermano valori umani, di canto serenatore, che li riporta nel pieno della nostra piú intima tradizione. Noi non vogliamo che indicare il nuovo periodo come chiusura del decadentismo e come nascita di una nuova poesia italiana sí, ma esperta, europea.

Dalla poetica di un Praga a quella di un Ungaretti, c’è un lungo divario e un lungo cammino: il cammino appunto della nostra poesia moderna[1].


1 [Per lo sviluppo della mia prospettiva sulla poesia e letteratura contemporanee rimando almeno ai miei saggi Cultura e letteratura nel primo ventennio del secolo (1950), Formula per Cecchi (1943), Lo svolgimento della prosa di C.E. Gadda, con una nota sull’Adalgisa (1943-1946), Il Canzoniere di Saba (1946), tutti raccolti in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, La Nuova Italia, Firenze, 1963², e al mio Omaggio a Montale pubblicato nel fascicolo dedicato a Montale della «Rassegna della letteratura italiana», Maggio-Dicembre 1966, n. 2-3].